Guardia Costiera ritrovato il corpo del pescatore Rinaldo Di Lello
Guardia Costiera ritrovato il corpo del pescatore Rinaldo Di Lello
Venerdì mattina l’affondamento, ad un miglio e mezzo a largo del Salto di Fondi, del “Claudio Padre”, la paranza di 12 metri della marineria di Terracina all’interno della cui cabina di guida è stato trovato cadavere il comandante Rinaldo Di Lello, di 63 anni di Terracina. Le cause sono ancora al vaglio degli inquirenti, ma le ipotesi probabili potrebbero essere molteplici come le concause dovute alle condizioni meteo in zona ma nessuna ipotesi all’attualità viene esclusa, le prime e significative indiscrezioni che trapelano dalla locale Guardia Costiera e dalla Capitaneria di porto di Gaeta, della Riviera Pontina, dopo una prima informativa inviata alla Procura della Repubblica di Latina redatta a poche ore dal recupero, a 34 metri di profondità, di Rinaldo Di Lello, il capobarca del “Claudio Padre” trovato purtroppo privo di vita all’interno della cabina del peschereccio che aveva concluso anticipatamente le operazioni di pesca a causa del lento e graduale peggioramento delle condizioni meteo marine.
La Guardia Costiera che ha recuperato il copro del pescatore non ha mai smesso di lavorare e coordinare tutte le fasi della ricerca e del recupero anche attraverso l’impiego di mezzi navali, aerei e nuclei subacquei. Nella zona dell’affondamento, a poco meno di tre miglia dal porto di Terracina, soffiava un forte vento di libeccio ed il mare era di forza cinque. Gli inquirenti, coordinati dal comandante della Guardia Costiera di Terracina Alessandro Poerio, non lo dicono esplicitamente ma un’onda anomala – tecnicamente “il mare a traverso” – avrebbe di lato contributo a far capolvere l’imbarcazione che, al momento dell’incidente, non aveva assolutamente le reti in acqua. Una drammatica gara di solidarietà era iniziata subito dopo l’allarme lanciato con l’attivazione del sistema satellitare di localizzazione Epirb del natante: ad affiancare i sommozzatori del 2° Nucleo Operatori subacquei della Guardia Costiera di Napoli sono stati numerosi pescatori della marineria avevano permesso di trarre in salvo venerdì mattina, colpito da un iniziale stato di ipotermia, il giovane di 23 anni di Terracina che faceva parte dell’equipaggio del “Claudio Padre”. Il collaboratore di Di Lello è stato naturalmente sentito e ha raccontato le fasi della battuta di pesca iniziata nella più totale tranquillità giovedì sera e proseguita sino alle prime luci dell’alba di venerdì quando però sono mutate improvvisamente le condizioni meteo-marine. Da questo momento la decisione di rientrare a Terracina che si è interrotta ad un miglio e mezzo davanti il litorale del Salto di Fondi.
Il vento ed un’onda avrebbe capovolto lateralmente la paranza: mentre il 23enne è riuscito miracolosamente a salvarsi dopo una breve nuotata, il capobarca Di Lello è rimasto prigioniero all’interno della cabina del peschereccio inabissandosi a 34 metri di profondità. Quanto è realmente accaduto lo dovranno accertare le due inchieste aperte al momento: la prima penale della Procura della Repubblica di Latina (è stato aperto un fascicolo contro ignoti), la seconda tecnico-amministrativa della stessa Guardia Costiera circa il rispetto delle norme di sicurezza a bordo del peschereccio che – secondo quanto trapela dal compartimento marittimo di Gaeta – dovrà essere recuperato. Lo deciderà nei prossimi giorni la stessa autorità giudiziaria che probabilmente nominerà alcuni periti di fiducia specialisti in gestione e sicurezza della navigazione.
Lo sviluppo delle indagini dipenderà anche dall’esito dell’autopsia cui sarà sottoposto il cadavere di Di Lello che, recuperato e trasportato a bordo della motovedetta nel porto di Formia, è stato prima riconosciuto in un clima di profondissimo dolore e strazio dai suoi familiari per poi essere trasferito presso l’obitorio dell’ospedale Santa Maria Goretti di Latina a disposizione dell’autorità giudiziaria. Questa ennesima tragedia del mare costituisce un altro duro colpo, dopo la devastante ondata di maltempo di fine ottobre, per la città di Terracina e per la sua storica e laboriosa marineria.
L’affondamento del “Claudio Padre” ricorda tanti aspetti che l’accomunano alla triste vicenda del “Rosinella”, il peschereccio che, partito dal Molo Azzurra di Formia , fece perdere le proprie tracce la notte del 19 aprile 2016 a sette miglia a largo del litorale di Baia Domizia con a bordo il comandante Giulio Oliviero e altri due membri dell’equipaggio i marittimi tunisini Khalipa e Saipeddine Sassi, padre e figlio di 60 e 25 anni. A 32 mesi dai fatti l’armatrice della paranza, la moglie del comandante Oliviero, la signora Rosa Imperato, non si capacita delle mancate risposte da parte del Tribunale di Cassino: il Gip non ha esaminato ancora la sua opposizione contro il decreto di archiviazione – emesso dal Pm Marina Marra – del procedimento contro ignoti con l’ipotesi di reato di disastro colposo. E’ in corso ancora una “guerra” di perizie. Quella sollecitata dalla dottoressa Marra che, effettuata dall’esperto di sicurezza della navigazione Giovanni Di Russo, ha lamentato una sorta di superficialità nella gestione e nella manutenzione del “Rosinella” nelle settimane che precedettero la tragedia. Il peschereccio sarebbe affondato per la rottura improvvisa di uno dei due manicotti d’acciaio del sistema di raffreddamento del motore oggetto qualche giorno prima della tragedia di alcuni interventi di manutenzione presso un cantiere navale di Terracina.
L’affondamento della paranza sarebbe avvenuto in pochissimi minuti, alle 21.40 del 19 aprile 2016 e con un piano di sicurezza «contraffatto»: l’Epirb – un sonar che si aziona a contatto con l’acqua – non sarebbe stato azionato e la zattera di salvataggio sarebbe stata trovata legata a bordo del natante, probabilmente per timore di furto nello stesso porto di Formia. La richiesta di opposizione della parte civile fa leva, invece, sul contenuto di una perizia di parte. E’ stata redatta dall’ingegnere navale militare Domenico Pisapia di Salerno e da quello meccanico Sebastiano Molaro: a loro dire è impossibile affondi in pochi minuti una paranza, con una stazza di 28 tonnellate, per la sola rottura di un giunto d’acciaio. Quel tipo di peschereccio per affondare ha bisogno dalle quattro alle cinque ore e non di pochi minuti e, pertanto, ci sarebbe stato tempo e modo per i tre membri dell’equipaggio di dare l’allarme, di salire sulla zattera di salvataggio e, al limite, di gettarsi in mare. E invece i due marittimi tunisini furono trovati cadaveri a 65 metri di profondità ed il corpo del comandante “rinchiuso” in una botola, in avanzato stato di decomposizione, in occasione del recupero, dopo sei mesi, del “Rosinella”. Insomma tante ipotesi a fronte di una tragedia, di tre morti, che per la Procura di Cassino – almeno per il momento – non hanno responsabilità.